Viviamo in tempi complessi in cui all'orizzonte si accumulano segni di crisi e di incertezza sempre più evidenti. A me pare che uno spettro si aggiri per l'Europa e non è (purtroppo) quello del comunismo ma quello del razzismo più duro,quello omicida che è accompagnato da una xenofobia che è sempre più dilagante. Per tentare di arginare questo fenomeno e per impedire che si diffonda ulteriormente mi pare utile riprodurre sul nostro blog l'articolo pubblicato oggi sul "Manifesto" da Alessandro Portelli, uno dei nostri intellettuali più lucidi e preparati.
Aperta la diga dell’antifascism o dilaga l’odio razziale
Macerata. Linciaggi e rappresaglie sono sempre anche forme di
comunicazione. È terrorismo nel senso stretto perché hanno lo scopo di
terrorizzare le persone del gruppo
Di Alessandro
Portelli
Lo scrittore afroamericano Richard Wright descrive nella
sua autobiografia il clima di terrore che incombeva sulle comunità nere nel Sud
della segregazione. Erano tempi, scrive, in cui un crimine commesso da un nero
diventava un crimine commesso dai neri; e la conseguenza era la punizione
collettiva, il massacro ritualizzato che abbiamo imparato a chiamare
linciaggio.
Per molto tempo abbiamo creduto che queste cose fossero un tardo
residuo di barbarie da superare con il progresso e la civiltà; quello che è successo
nel 2018 nella civilissima città di Macerata conferma che il razzismo non è un
residuo che ci lasceremo alle spalle ma un mostro che più credi di averlo
ammazzato e più risorge, più orrendo di prima.
Penso ai linciaggi perché la strage tentata e
sfiorata a Macerata (ma non ci dimentichiamo di quelle riuscite: Samb Modou e
Diop Mor uccisi a Firenze il 13 dicembre 2011) ne ha tutte le caratteristiche
tradizionali, con in più qualche variazione nostrana.
Intanto, l’intreccio fra ideologia razziale e ideologia
di genere.
Precisamente come nel più tipico dei linciaggi americani, il
terrorista nazifascista di Macerata ha preteso di agire per “vendicare” una
donna bianca, Pamela Mastropiero, del cui
assassinio è accusato un immigrato africano.
“Proteggere” le donne dalla minaccia nera significa farsi difensori della
purezza della “razza” nell’atto di ribadire i ruoli arcaici di genere.
Il terrorista di Macerata peraltro non ha cercato di punire
l’accusato, che comunque è già in carcere, ma ha sparato nel mucchio. Questo
perché uno dei pilastri del razzismo è il rifiuto di riconoscere gli altri come
individui: ogni singolo rappresenta l’intero gruppo e l’intero gruppo è
responsabile delle azioni di ogni singolo – tanto che anche in questo caso,
come spesso avviene nei linciaggi, la punizione collettiva diventa, o cerca di
diventare, massacro di massa.
In Italia, il gesto di uno che si è tatuato un simbolo nazista sulla
testa evoca anche altre punizioni collettive, come i “dieci italiani per un tedesco”
delle rappresaglie naziste. Penso a Salvini, secondo cui la colpa non è di chi
spara agli immigrati ma di chi li ha fatti entrare: gli immigrati, cioè, sono
colpevoli per il solo fatto di esserci, proprio come gli ebrei per i nazisti.
ALTRA CARATTERISTICA del linciaggio è l’ambigua relazione fra la
violenza “spontanea” e la complicità o il silenzio delle istituzioni che della
violenza dovrebbero avere il monopolio. Questo è già insito in luoghi comuni
come la flebile condanna del “farsi giustizia da sé”. Questo sventurato luogo
comune sembra dare per scontato che di “giustizia” si tratti, come se la colpa
del terrorista fosse quella di essersi arrogato una funzione dello stato che
non è abbastanza rapido e duro nel punire.
Eminenti rappresentanti passati e, temo, futuri delle istituzioni,
infatti, sono su una lunghezza d’onda comparabile: da un lato, Berlusconi
propone anche lui una punizione collettiva sotto forma di deportazione di
massa; dall’altro, dall’area governativa vengono discorsi sulla “sicurezza” e
sull’urgenza di bloccare i flussi dei migranti, che rinforzano le stesse
paranoie che hanno armato la mano del terrorista di Macerata. In altre parole:
non meno assassini, ma meno bersagli.
INFINE, LA RITUALITÀ. LINCIAGGI e rappresaglie sono sempre anche forme di
comunicazione: terrorismo nel senso stretto del termine perché hanno lo scopo
di incutere terrore non solo alle persone colpite ma a tutti i loro simili.
Perciò ritualità e simbolismo sono inseparabili dalla violenza immediata. Qui
ci troviamo davanti a una ritualità e una simbologia – il tricolore, il
monumento ai caduti, il saluto fascista – che ci fa capire quanto sia ancora
difficile districare un’idea di identità nazionale dalle incrostazioni che gli
ha attaccato addosso il fascismo. Il messaggio è chiarissimo: essere italiani
significa essere fascisti.
LUCIDISSIMO DUNQUE il terrorista, altro che “gesto di un pazzo”.
E comunque, anche se fosse: in ciascun luogo e tempo storico, la pazzia prende
le forme che gli propone la “ragione” che ha intorno: se l’aria è satura
dell’odio sano e normale verso i migranti, è logica che la “follia” si armi in
quella direzione, assuma i simboli che i sani e normali condividono e
amplificano, e faccia davvero quello che sente ripetere che andrebbe fatto.
Questa è la “ragione” che abbiamo intorno e che
respiriamo, a partire dall’irresponsabile e sciagurato discorso di Violante sui
“ragazzi di Salò”. Abbiamo legittimato i fascisti nello
stesso tempo in cui ci pentivamo di essere stati comunisti; abbiamo
riconosciuto ai repubblichini i “valori” e abbiamo accusato i partigiani di
“ideologia”.
Una volta aperta la diga dell’antifascismo, non c’è limite alle
schifezze che possono tracimare e dare assuefazione al senso comune.
Richard Wright aveva paura, e dovremmo avere paura anche noi. In un
paese dove ai bambini di San Saba viene impedito di cantare “Bella Ciao” perché
“è di parte” (che sarebbe poi la parte della democrazia), non sono solo i
migranti ma tutti gli antifascisti ad essere bersaglio di aggressioni e
violenze diffuse e impunite (quanti sono oggi i condannati per apologia di
fascismo?).
ALABAMA E MISSISSIPPI in salsa italiana, dunque? No, peggio. Mi è
già capitato di dire che in Alabama, se non altro, lo ius soli esiste e nessuno
lo mette in discussione (anche quel simil-Berlusconi di Donald Trump vuole
deportare masse di migranti, ma non gli viene in mente di deportare i loro
figli nati negli Stati Uniti e cittadini americani).
Soprattutto, ai tempi della segregazione in Alabama e in Mississippi
qualche anticorpo c’era: e non penso solo a quelli che la comunità nera aveva
generato da sé, come Rosa Parks, Fannie Lou Hamer, Martin Luther King, ma anche
a Viola Liuzzo, a Andrew Goodman e Michael Schwerner, uccisi (col loro compagno
afroamericano James Earle Chaney) per essere andati ad affrontare i razzisti
sul loro stesso territorio, insieme a centinaia di ragazze e ragazzi bianchi e
neri che sono andati al Sud a praticare l’azione diretta nonviolenta, e ne sono
tornati vivi ma non senza aver conosciuto il carcere e le botte.
E penso a un ministro della giustizia come Robert Kennedy, che l’ha
pagata cara anche lui. E da noi?
DA NOI, ASSUEFAZIONE e paura: fascismo, razzismo, nazismo sono
parte della nostra quotidianità, tanto che non li chiamiamo più neanche col
loro nome. Dice Matteo Renzi che non bisogna “strumentalizzare” il tentato
linciaggio di Macerata. Ma strumentalizzarlo consiste precisamente nel
rifiutarsi di chiamarlo col suo nome, cioè nel rifiutarsi di dire una parola chiara
sul fascismo, il nazismo e i loro portatori attuali, per la preoccupazione
strumentale di perdere qualche voto fra un mese.
In altre parole: la ex sinistra è convinta che contro la
deriva razzista e nazifascista non ci sia più niente da fare, e quindi niente
fa.
Anche perché ha paura.
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